SILVIA AMADORI
MASSIMILIANO CARBONI
ROSSELLA LAQUALE
ELISABETTA LOI
NICOLO' MANCA
LUIGI MOI
VALENTINA MURA
DEBORA MUSU
EBE PIERINI
ALBERTO PINNA
MARIO PINNA
OLIVIERO PLUVIANO
MAURIZIO SULIG
PAOLO VACCA
25 FEBBRAIO 2012
Era una fredda serata primaverile quando andai a ritirare il referto
di una biopsia, contro ogni previsione arrivò la diagnosi che non avrei
mai voluto sentire. Tumore al seno, uno dei più aggressivi.Incredula e
con sguardo smarrito cercavo di ascoltare il primario che amorevolmente
mi spiegava la situazione. Non sapevo da che parte iniziare, la mia vita
aveva preso una brutta deviazione, ma non potevo nemmeno piangermi
addosso, dopo due giorni c’era la tanto attesa presentazione di un mio
libro; dovevo essere lucida, e nessuno doveva sapere della mia malattia
perché non volevo che mi trattassero in maniera diversa. Tempo qualche
giorno e feci il mio ingresso all’ospedale oncologico, ero spaesata e
cercavo di non osservare le persone che mi stavano accanto, non volevo
vedere i loro sguardi, la loro sofferenza mi spaventava. L’incontro con
il primario e con il personale mi ha rasserenato, non mi sono sentita un
numero, uno dei tanti da operare, tutto lo staff è stato squisito. Il
primario ascoltava incredulo le mie “richieste”. Avevo già programmato
una serie di servizi fotografici per i mesi successivi, e il mio
desiderio più grande era quello di poter onorare gli impegni presi, sia
per una questione di rispetto delle persone coinvolte, sia per tenermi
impegnata e non pensare alla malattia e a tutto l’iter che mi
aspettava.Hanno compreso le mie esigenze, hanno capito che il lavoro era
la mia forza, la mia salvezza dal baratro in cui molte persone purtroppo
cadono in queste situazioni. Ho subito due interventi, tra un reportage
e l’altro. Nonostante i punti e il dolore volevo scattare le mie
fotografie. Nonostante i 6 cicli di chemioterapia e i 30 di radioterapia
ero sempre in giro per i miei reportage. Dai concerti ai servizi in
barca, dai servizi di cronaca a quelli istituzionali. Dovevo tenermi
impegnata il più possibile per non pensare alla malattia, dovevo
sfinirmi con il lavoro che ho sempre svolto con molta passione. Non ho
potuto realizzare tutti i reportage che mi venivano in mente, uno tra
questi riguardava proprio laBrigata Sassari che anche nel 2009 si
trovava in Afghanistan, la mia chemioterapia ha purtroppo coinciso con
la loro missione. Era un desiderio, anche se non ero sicura di essere
all’altezza della situazione e di avere il coraggio di partire
veramente. Ma si sa, quando una cosa ti viene impedita di fare, desideri
fortemente farla. Desideravo poter raccontare l’operato dei militari, il
loro coraggio, la vita dei soldati della Brigata Sassari, perché noi
sardi abbiamo un legame forte con la nostra terra. Naturalmente era
impensabile poter partire nel mio stato, e quindi il reportage sulla
Brigata Sassari in missione è rimasto un mio desiderio, un mio sogno nel
cassetto. Sono passati solamente due anni dalle mie terapie e i
sassarini sono nuovamente in Afghanistan, ho deciso quindi di attivarmi
per richiedere l’accredito come embedded. La mia domanda è stata
accolta, il sogno nel cassetto si è avverato e a febbraio sono partita,
ho vissuto 10 giorni a contatto con i sassarini. In Afghanistan ho
incontrato persone stupende, orgogliose di indossare la divisa e di
prendere parte alla missione ISAF (International Security Assistance
Force). Sei mesi lontano dalla famiglia e dagli affetti sono sicuramente
difficili, ma i sassarini sono tra loro molto uniti e affiatati, sono
una seconda famiglia; questo rende sicuramente più semplice il
trascorrere delle settimane. Ormai da oltre dieci anni anche le donne
fanno parte delle Forze Armate Italiane, ma suscitano nei media ancora
tanta curiosità. Molte di loro però preferiscono stare nell’ombra, non
amano farsi fotografare ne intervistare, non amano le “pressioni” dei
giornalisti. Non vedono la loro professione così eclatante, è per loro
una scelta di vita, in fondo come chi decide di fare il medico o il
reporter. Le donne arruolate sono giovani, molte sono single e chi è già
sposata lo è generalmente con un collega. Ammettono che la vita militare
è complessa, difficile da capire e condividere, ritengono che un
compagno militare possa essere più comprensivo e in grado di capire le
dinamiche della vita in divisa. Alcune sono già mamme, e con il grosso
supporto dei papà che restano in Italia cercano di far pesare ai figli
il meno possibile il distacco; le nuove tecnologie come Skype e le video
chiamate aiutano sicuramente. In fondo una mamma al fronte desta stupore
solamente in Italia, perché non si è abituati all’idea che un genitore
possa stare lontano da casa per diverso tempo, cosa che negli altri
stati avviene ormai da anni. Le soldatesse sono coraggiose, determinate
e sicure di se. Alcune hanno padri o fratelli arruolati nelle Forze
Armate Italiane, altre, come Chiara Aldi, sono invece i primi militari
di famiglia. Ormai sia in patria che nei teatri operativi gli incarichi
femminili sono i più disparati. Chiara Aldi è la mamma di Camp Arena, il
suo ruolo è mission monitor dei Predator; Gaia Gullo è il medico al
servizio del PRT (Provincial Reconstruction Team); Pamela Sabato pilota
i Mangusta; Giovanna Mula guida i lince; Alessia Marongiu è al CIMIC;
Angela Carta si occupa della mensa di Farah; Simona Meloni è la mamma
del PRT e si occupa della segreteria del comandante, Colonnello Giacinto
Parrotta; Martina Salis è al PRT insieme al marito Ivan; Carla Scalas,
la trombettista della banda della Brigata sta negli uffici del comando
di Camp Arena; Valeria Serra è la responsabile della produzione e
sviluppo; Annalisa Iannetta è il direttore editoriale di Radio Bayan
West; Clea Tirino è al PRT;Chiara Peretti e Manuela Moi fanno parte del
FET (Female Engagement Teams); Valentina Papa è un pilota del 14° Stormo
dell’Aeronautica Militare. L’Afghanistan è un teatro operativo molto
difficile, sia per la complessa conformazione geografica, che per la
diversità religiosa e culturale. La presenza del personale militare
femminile diventa quindi molto importante in un contesto come questo. Le
soldatesse del FET incontrano le donne afghane, ascoltano le loro
esigenze al fine di realizzare dei progetti che consentano un
miglioramento delle loro condizioni sia nel contesto famigliare che
sociale. Donne e uomini devono impegnarsi allo stesso modo ma, per ovvie
diversità caratteriali, le donne sono più predisposte allo svolgimento
di alcuni incarichi. L’interazione e la complementarietà del personale
femminile con quello maschile permettono un intervento mirato sui
diversi fronti rendendo così più agevole il raggiungimento degli
obiettivi che la missione si è prefissata. Lo staff di Radio Bayan West
si occupa delle trasmissioni radiofoniche affiancando e formando
giornalisti e giornaliste afghane. Il palinsesto, rivolto esclusivamente
alla popolazione locale, prevede news, rubriche e approfondimenti che
vengono diffusi nelle lingue sia pasthto che dari. Al team dello PSYOPS
sono invece affidate le “comunicazioni operative”, ovvero quell’insieme
di attività volte a consolidare la fiducia della popolazione locale nei
confronti dei contingenti militari impegnati nella missione ISAF. Le
comunicazioni avvengono sia con l’ausilio dei tradizionali mezzi di
comunicazione, che attraverso la diffusione di messaggi tramite gli
altoparlanti, il lancio di volantini o di messaggi televisivi e
radiofonici. Tutte le comunicazioni vengono accuratamente studiate
affinché la popolazione possa agevolmente comprenderne il messaggio, i
testi vengono quindi affiancati da simboli o immagini facilmente
riconoscibili. Nella mia breve permanenza in Afghanistan volevo
raccontare il lavoro dei nostri sassarini, ma allo stesso tempo era
anche una sfida con me stessa, volevo portare una piccola testimonianza
alle donne che come me hanno affrontato o stanno affrontando il tortuoso
percorso di un tumore, perché nonostante le dure terapie e gli
strascichi che esse lasciano, non bisogna arrendersi mai, bisogna
lottare e credere sempre in se stessi. Un medico sosteneva addirittura
che il merito della guarigione era per il 50% merito dei farmaci e per
il restante 50% merito della nostra forza di volontà, e a me questa, per
fortuna, non è mai mancata. Il tumore ci costringe a prendere una
piccola deviazione della nostra vita, una via un po’ tortuosa, ma con
grande stupore ci si può risvegliare e rinascere anche più forti di
prima. Io la mia battaglia spero di averla vinta, mi auguro che anche i
nostri militari vincano la loro. La loro non è però una battaglia ma una
missione di pace, il loro compito infatti è quello di cooperare e
affiancare il governo afghano al fine di riportare la sicurezza su tutto
il territorio permettendo anche la ricostruzione e il miglioramento
delle condizioni di vita di tutta la popolazione. Allora non mi resta
che dire….FORZA PARIS!
ELISABETTA LOI
ELISABETTA LOI
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